Che diritto ho di raccontare la vita di mia figlia?

Ho letto due post sul diritto alla privacy dei figli con disabilità e sul diritto dei genitori di scrivere dei propri figli. Ce ne sono molti ho scoperto, ma questi mi hanno colpito in modo particolare. Le autrici sono su due posizioni opposte e con forza sostengono la propria. Io mi sento chiamata in causa e sono confusa. Ho sempre scritto pubblicamente in nome della cultura della diversità, e privatamente in forum protetti in nome del bisogno di condivisione e di confronto.

Il post di Amy Sequenzia è molto duro e dice che la disabilità dei nostri figli non è la nostra storia da raccontare, che se lo facciamo pubblicamente a spese dei nostri figli non stiamo facendo il nostro lavoro, cioè fare i genitori. Lancia addirittura la provocazione: “You are doing it for popularity.”
Phoebe Holmes con altrettanta forza dice che non smetterà di scrivere di sua figlia che lei è la sua voce, sua figlia non può farlo per se stessa, quindi lo farà lei al suo posto. Ma dice molto di più, con una metafora bellissima: “Maura’s disability isn’t a little bubble that keeps her contained. Maura’s disability is a glitter bomb, both shiny and wonderful and a little annoying at times when it gets in your food. You can try all you want, but once a glitter bomb explodes in your house, that’s it, your house will always have glitter. You can get used to it, come to enjoy all it’s sparkle while being annoyed that there’s a bit of glitter in your coffee. You live with the glitter and adjust your surroundings to work with the glitter. And as a writer, I write about that glitter.”
Per Phoebe la disabilità quando entra in una famiglia riguarda tutti, riguarda i genitori, riguarda i fratelli, e io aggiungo riguarda la scuola in cui quel bambino andrà, riguarda la società tutta. Come dire, la storia di mia figlia non riguarda solo lei, ma riguarda anche me, non è solo la sua storia ma è anche la mia!

Quando ho deciso di pubblicare Lo zaino di Emma la questione me la sono posta. All’inizio mi era parso un atto esibizionista, o come dice Amy mi sono chiesta se mi interessasse una sorta di “notorietà”, ma la risposta è stata “No, non mi interessa”, e credo di essere stata onesta con me stessa. Forse mi interessava essere letta, questo sì, tutti quelli che scrivono vogliono essere letti, probabilmente anche da bambini speravamo che qualcuno scoprisse il nostro diario segreto e finalmente capisse qualcosa di noi! Ma più di tutto mi interessava restituire qualcosa e mettere la mia esperienza di vita e le mie riflessioni a disposizione di tutti. Leggere le storie di altri mi aveva fatto molto bene, leggere racconti, romanzi, ascoltare le storie di ragazzi adulti mi dava prospettiva e fiducia, le riflessioni dei genitori mi aiutavano a capire me stessa e i consigli pratici mi ha sostenuto in ogni passaggio cruciale della vita di Emma. Ho pensato che fosse il mio turno! Poi volevo qualcosa di più: credo nella forza della cultura e nel potere del racconto e speravo che il mio libro potesse attraversare il ponte che divide il mondo della disabilità dal cosiddetto mondo degli altri e speravo che aiutasse qualcuno, anche pochi sarebbero andati bene, a conoscere il nostro mondo un po’ di più. Senza nulla togliere ai molti genitori di figli disabili che mi hanno scritto e con cui ho parlato e condiviso tanto, la sorpresa più grande l’ho avuta proprio nell’incontro con il mondo degli “altri” e il riscontro che ho avuto da lettori che non mi conoscevano e che non avevano a che fare con la disabilità o dai ragazzi delle scuole che ho incontrato.

Ho fatto e continuo a fare tutto questo a spese di Emma? Questa è la domanda! Sto violando la sua privacy? Dell’opportunità di pubblicare immagini dei propri figli se n’é parlato molto, ma qui si tratta della vita dei nostri figli. Davvero non lo so, e come dice il mio amico Guido sono in modalità riflessione ON. Mi chiedo fino a che punto ho il diritto di scrivere di Emma, mi chiedo quando scrivo della mia vita CON Emma e quando scrivo DI Emma, mi chiedo che ne penserà lei un giorno? Un giorno un bambino le ha chiesto perché parlasse in modo così strano, Emma lo ha preso per mano e lo ha portato da me e le ha detto: chiedilo a lei che ha scritto un libro su di me! Mi ha fatto tanto sorridere in quel momento, ma poi ho continuato a pensarci e ho capito che per me è stato come se Emma mi avesse firmato una liberatoria.
Quanto scrivo per il bene di Emma e quanto scrivo perché fa bene a me? Allo stresso tempo mi chiedo se anche scrivessi solo perché fa bene a me cosa ci sarebbe di sbagliato in questo o meglio quando è sbagliato? Quali sono le regole del gioco della scrittura? Forse romanzi o film parlano solo delle vite degli autori o di vite inventate?  Davvero abbiamo diritto di scrivere solo di noi stessi? Davvero raccontare la vita di nostro figlio può essere una mancanza di rispetto?
Perché in fondo forse la domanda giusta non è se è sbagliato scrivere dei propri figli con disabilità o dei propri figli in generale, ma c’è da chiedersi come si scrive dei propri figli? Fino a che punto possiamo scrivere dei nostri figli? Fino a che punto non stiamo violando la loro privacy e quando superiamo quel limite? Una delle blogger che ho citato ha scritto che si dovrebbe scrivere solo in forma anonima o in privato ad altri genitori condividendo strategie e consigli, ma su questo non mi trova d’accordo. In questo modo ci perderemmo tanta ricchezza e tante storie che hanno fatto bene a molti e che grazie al web, alla letteratura e anche ad una certa tv sono arrivate di casa in casa anche in luoghi lontani e altrimenti irraggiungibili. In questo modo la rete virtuale ha creato una rete reale di relazioni e di conoscenze, una rete di parole e di esperienza che a volte ha salvato vite o offerto opportunità, ha fatto vedere la luce in fondo al tunnel, aperto sguardi nuovi sul mondo della disabilità, dato speranza e fiducia. Tutto questo a spese della privacy? Forse…
So che è un post fatto quasi solo di dubbi e domande, ma a me piace tenerle aperte le domande e mi piacerebbe sentire voi che ne pensate, voi mamme di figli con disabilità che scrivete e voi mamme blogger che parlate di maternità e dei nostri figli.

12 pensieri su “Che diritto ho di raccontare la vita di mia figlia?

  1. valentina ha detto:

    Ogni genitore, che abbia o meno un figlio disabile, dovrebbe avere i tuoi dubbi quando pubblica qualcosa che riguarda i figli. A me capita, é capitato: posto o no la loro foto su facebook? La mia risposta é stata sì. Ho pensato che, infondo, cambia poco rispetto alle chiacchiere da ufficio o da cortile o da palestra con scambio di foto e pettegolezzi. Certo, la platea é enormemente più estesa, ma anche qui spetta a noi Iimitare l’accesso ai nostri profili alle sole persone “amiche”, se é il caso anche escludendo qualcuno ad hoc.
    Credo che tu abbia fatto benissimo a pubblicare il libro: é illuminante per chi, come me, non ha mai avuto esperienza con bambini disabili e spesso si sente inadeguato nel rapportarsi con loro. Sono io ad avere un handicap!
    Grazie allo zaino di Emma forse ora é un po’ meno evidente…

  2. Bernadetta Ranieri ha detto:

    Ciao Martina,
    ho da poco pubblicato anch’io un libro che vede protagonista mio figlio Lorenzo con SdD – “Pronto a volare” (edito da Youcanprint).
    Anch’io prima di pubblicare mi son chiesta più e più volte se stavo facendo la cosa giusta, se non stavo oltrepassando il limite della privacy di mio figlio, se non gli stavo arrecando danno. E dunque mi son detta: la disabilità non è solo una questione di famiglia, ma è anche racconto, condivisione, inclusione. Deve essere vissuta da tutta la società come una risorsa e non come un problema.
    Pertanto l’intento del mio scritto autobiografico, in cui c’è anche lo zampino di mio marito, è di aiutare chi si trova a vivere la disabilità, ma anche chi si trova ad essere fratello, sorella, amico, insegnante di una persona diversamente abile, anche dando delle informazioni scientifiche e di interesse comune.
    Spesso non si è portati a chiedere aiuto, a chiedere consiglio a chi ha già affrontato la stessa situazione (e per tante ragioni). Si rischia l’isolamento, si può cadere nella convinzione che gli altri non ci capiscono, non comprendono e si finisce per non tentare nemmeno di spiegare loro. E, allora, magari un libro-testimonianza può riempire il vuoto e creare speranza e dare forza nel continuare a crescere nel migliore di modi anche un figlio down e permettere a chi sta vicino alla famiglia (o che comunque gravita nel mondo della disabilità) di conoscere meglio la Sindrome di Down e di approcciarsi nel modo più corretto possibile.
    Lorenzo ha cinque anni e mezzo ed è ancora piccolo per capire l’uscita del libro, ma spero che un giorno, comprendendo le mie intenzioni, mi dirà “brava mamma, così mi conoscono meglio ed eviteranno di associarmi ai vecchi e obsoleti stereotipi legati alle persone con Sindrome di Down”.
    Un abbraccio a Emma.
    Bernadetta Ranieri

  3. Gemano Turin ha detto:

    Se permettete io, se fossi genitore di un figlio con disabilità , riformulerei la domanda e mi chiederei:
    “Che diritto ho di non raccontare la vita di mio figlio?” Mi spiego.

    Credo che la peggior sorte che possa capitare ad una persona sia quella di essere costretta a vivere, a volte, forzatamente nascosta, e di passare a miglior vita senza lasciare nessun segno della propria presenza sulla Terra. Se volete potete anche definirla “indifferenza”, che io reputo la peggiore delle sorti che possano capitare.

    Lo dico come “vecchietto” con disabilità che, prima ancora d’invecchiare, ha attraversato la propria vita sotto il peso dei propri problemi e, a volerla dire tutta, uno di questi problemi è stato quello di aver a che fare con delle persone che mi volevano tenere nascosto. A loro modo di vedere per non vedermi soffrire ad essere preso in giro dal mondo a causa delle sopraccitate disabilità: ma io avrei mille altre spiegazioni da dare al posto di quella accennata.

    Da piccolo, già con disabilità, avrei voluto qualcuno vicino che mi proteggesse, che mi aiutasse a crescere, che mi spiegasse com’è fatta la vita e la qualità delle persone che compongono l’umanità, ma non avuto nulla di ciò.

    E non posso nemmeno attribuire una colpa alle persone che mi stavano attorno: se pensate che quando sono nato erano in vigore le “Leggi razziali”, che mi volevano soppresso in quanto bambino con disabilità, posso dire che le persone che mi stavano intorno erano già “avanti” rispetto alla filosofia del regime del tempo nel riconoscermi il diritto di vivere tenendomi nascosto.

    Non è semplice per nessuno la vita: se poi questa vita è complicata e viene vissuta in contesti “particolari” diventa ancora più complicata.

    Però lasciatemelo dire: per aiutare una persona disabile, piccola o grande che sia, bisogna avere prima di tutto “il cuore”, cioè un luogo dei sentimenti in cui ci sia spazio per “l’amore”, che è una dote che poche persone possiedono sulla Terra.

    E’ un po’ come il coraggio che mancava a Don Abbondio nei “Promessi Sposi” al quale Manzoni fa dire la famosa frase:

    – “Se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare!”

    Germano Turin – Torino

  4. Anna Pisapia (@annapisapia) ha detto:

    Cara Martina,
    io penso che la privacy nostra e dei nostri bambini sia violata ogni giorno da tante persone senza neanche che ce ne accorgiamo (a volte solo ignoranti del mezzo social che stanno usando o che non si pongono nemmeno la questione e pubblicano foto dei loro figli con accanto quelli degli altri senza richiesta… naturalmente specie se non li conoscono bene).
    Inoltre trovo sbagliato che possano circolare foto di bambini di Paesi poveri (Africa, India ecc.) e che ci siano mostre mentre in Italia sia impossibile fotografare senza autorizzazione. Vivian Maier ha colto espressioni meravigliose di bambini sconosciute e nessuno si pone la questione se dovesse o meno farlo. Se una foto documenta o racconta perché non può essere divulgata? Che malizia c’è? Se non invece la voglia di trovare un modo per esprimere e mostrare qualcosa spesso di inaspettato?

    Diverso è il discorso per i genitori, che sono responsabili per i propri figli. Innanzitutto mi sembra che Emma sia consapevole di quello che fai e sia così espansiva e abbia quella “giusta vanità” (se mi consenti l’espressione) per essere felice che tu ne parli o la fotografi. Del resto senza il tuo blog non sarebbe uscito il libro “Lo zaino di Emma” che invita a riflettere tutti noi genitori su molte questioni. Inoltre la tua pagina consente di creare relazioni e dare voce a chi non ha le tue capacità di scrittura o ha una natura più schiva.
    Certo forse sarebbe stato diverso se Emma fosse stata più schiva. E penso che tu stessa ti saresti fatta più problemi.

    Io amo fare le foto ai miei figli e fotoraccontare alcune esperienze insieme. Il più grande ne è consapevole e anche felice, il piccolo ancora poco.
    Inoltre mi piace riportare i loro pensieri con il loro nome perché trovo che siano citazioni di espressioni che sono a volte così poetiche e profonde, a volte divertenti che mi piace condividerle con genitori ed educatori che le apprezzano. Non troverei giusto inventare dei nomi di fantasia per dare anonimato perché sono proprio loro a dire queste frasi e come si cita un autore così vanno citati i bambini. Non dimentichiamoci che fino a pochi decenni fa i bambini non erano neanche considerati persone con sentimenti e personalità. Io penso che invece queste possano essere strade di condivisione con altre persone e scambio fecondo. Certo io lo vedo in modo positivo. Ci sono pedagogisti contrari.

    In un mondo in cui le lobby sanno tutto su di noi, in cui il Grande Fratello è ovunque, e si sa tutto sulle persone (se sono laureate, quanti figli anno ecc …e senza bisogno dei social), senza una grande consapevolezza generale, penso sia giusto porsi queste domande ma che ogni genitore sia poi responsabile fino in fondo delle proprie azioni e ne risponderà ai suoi figli quando saranno più grandi.

  5. Simonetta Morelli ha detto:

    Ciao, Martina. Non conosco l’inglese e non posso fare riferimento ai testi citati. Ma sulla questione ho delle idee precise che son quelle già espresse dalle persone che sono intervenute. In sintesi, se le intenzioni non sono quelle della ricerca di un palcoscenico su cui recitare i propri drammi, facendone carico all’intera società come se ci fosse dovuto un risarcimento per il dolore (ognuno ha i suoi per motivi diversi); se,al contrario, le intenzioni sono quelle di condividere un’esperienza perché sia di qualche utilità a chi è all’inizio di un percorso insieme alla disabilità di un figlio; se, a seguito di ciò si contribuisce ad arricchire la percezione della disabilità in chi non ne ha contezza, io credo che si possa e si debba parlare della propria esperienza. Il tutto, ovviamente con dei limiti che sono quelli del buon senso e del buon gusto. Intanto va rispettata la volontà del figlio, se è in grado di esprimerla e soprattutto il figlio va incoraggiato ad eleborare ed esprimere ( se ne sente il bisogno o se ne ha voglia) il proprio vissuto Insomma, parole e immagini vanno sempre contestualizzate.. Riguardo alle espressioni di Amy, non darei troppa importanza. Sono le sue e vanno rispettate ma io non le condivido nemmeno un po’. Assomigliano molto a quelle posizioni perbeniste che fanno tristezza (emblematici, sul tuo libro, i tuoi ricordi del fratello della tua amica e della vostra vicina di casa al mare, che vivevano non “nascosti” ma “protetti” da sguardi “indiscreti”, senza darsi alternative. Mi viene da pensare a quanto ha dovuto lottare la mamma del prof. Fulvio Frisone, il “figlio della luna”, per convincere la piccola società formata da famiglia, vicinato,mamme del centro di riabilitazione che mostrare il figlio a spasso, a scuola, in televisione, parlare dei suoi successi, è un modo di educare la società. E di fornirla degli strumenti della conoscenza e della consapevolezza per meglio affrontare la vita. Prova a immaginare come sarebbe bello se, in Italia, tutti sapessero come ci si porge nei confronti di una persona con disabilità. I problemi nascono quando ci sono persone che fanno della disabilità dei figli, un dono, un’espiazione per guadagnarsi il paradiso, un’altare su cui riversare fiumi d’amore materno (che a volte spegne la gioventù dei figli) o una specie di giocattolo su cui esercitare la propria creatività con infiocchettamenti di varia natura. Chiedo scusa per la prolissità…

    • pointsofview ha detto:

      Grazie Simonetta, lucida e limpida come sempre. Un quadro completo che mi risuona dentro con convinzione. Avevo bisogno di questo confronto con te e con i molti che hanno scritto qui, sulla pagina Facebook o che mi hanno risposto privatamente. Grazie!

  6. Lucia Fogliato ha detto:

    Carissima Martina, fai bene a porti dubbi sullo scrivere o no, ma sono felice se continuerai. Le cose belle della vita è bene che si conoscano anche se sono costate fatica e non tutto sempre luccica. Ma c’è qualcosa che non costa fatica, impegno? Grazie per scrivere. Ogni tanto guardo la copertina del tuo libro e mi compiaccio della tenerezza e insieme forza di quegli occhi che guardano chissà cosa e quella mano di mamma orgogliosa che sostiene quel viso. Assomiglia alle foto più belle di mio figlio che ogni tanto riguardo e mi strappano sempre un sorriso e ancora qualche lacrima😉. Credo che molte mamme scrivano e anch’io ho letto a volte alcune pagine del mio diario a mio figlio. Quando però si è commosso ho smesso per paura di investirlo delle mie ansie. I nostri ragazzi sono un enigma, o forse vivono in modo meno complicato di noi. Allora Avanti tutta e grazie! Lucia

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